Tornare dal lavoro alla sera e dover passare ore a verificare, finire e correggere i compiti dei figli è sicuramente un grande impegno che mina il benessere familiare. Così come, durante le vacanze estive, trovare degli spazi liberi, tra l’affidamento ai nonni, vacanze e gite di famiglia e le attività dei centri estivi, è sicuramente un impegno gravoso.
Il dibattito “compiti sì, compiti no” è aperto da decenni, acuito negli ultimi tempi da una serie di lettere e giustificazioni dei genitori ai maestri sul fatto che i propri figli non avessero tempo per i compiti, perché impegnati in altre attività ben più importanti, come la lettera in cui un papà sosteneva che al proprio figlio restavano solo 3 mesi per insegnargli a vivere e agli insegnanti i restanti 9 mesi per insegnargli dei concetti.
Scopriamo il senso pedagogico del compito a casa e come andrebbe gestito, sia da parte dei genitori che degli insegnanti.
Quando e perché il compito serve
Educazione e insegnamento sono strettamente legati: l’insegnamento è sicuramente al servizio dell’educazione, ovvero l’adulto insegna (mette un segno, soprattutto attraverso il suo esempio) nell’animo del bambino, il quale lo interiorizza, lo fa proprio e lo modifica, a seconda del proprio temperamento e carattere.
Affinché il bambino trovi il suo spazio e il suo obiettivo nel mondo, è importante che egli conosca il funzionamento, le regole, il significato del suo mondo: mentre l’educazione ha un obiettivo molto più ampio, nel caso della disciplina l’obiettivo è di insegnare al bambino a trovare un modo di agire che sia rispettoso di se stesso, di chi ha intorno e del suo ambiente.
Dare al bambino dei compiti da portare a termine è uno degli strumenti pedagogici più importanti, perché è ciò che permette al bambino di acquisire autonomia, ovvero la libertà. Che sia imparare ad allacciarsi le scarpe, a vestirsi da solo, ad occuparsi della propria stanza, a prepararsi la cartella, a lavarsi le mani prima di andare a tavola, ogni passo verso l’autonomia è una conquista fondamentale nello sviluppo infantile.
Purtroppo, come spesso succede, ciò che viene utilizzato per un motivo, diventa poi una routine perdendo via via il suo significato originale ed arrivando col tempo a diventare un’imposizione di cui non si comprende la ragione, come nel caso dei compiti a casa.
Il compito a casa dovrebbe essere una spinta all’autonomia del bambino e allo sviluppo della sua memoria e della sua volontà: i compiti delle prime classi della primaria dovrebbero essere dati principalmente a voce ed essere molto semplici e riguardanti principalmente attività pratiche.
Esempio: “Per domani, cari bambini, ricordate di portare una foglia che andrete a raccogliere oggi al giardino o nel parco” oppure “domani scriveremo sul quaderno giallo, ricordate di metterlo in cartella”. Questo tipo di richiesta arriva nel momento in cui il bambino sta diventando pronto per risvegliare la memoria, ovvero tra i 7 e i 9 anni. Lo stesso compito dato a un bambino di 4 anni non avrebbe senso.
Nel caso di bambini più grandi, il compito a casa serve per esercitare l’apprendimento di una capacità o della memoria, infatti l’unico modo per sostenere la memoria è l’esercizio e la ripetizione.
Quali caratteristiche dovrebbe avere un compito per avere senso pedagogico
Un compito, per avere un senso pedagogico, dovrebbe rispondere ad alcune caratteristiche:
- Essere adeguato all’età del bambino
- Poter essere svolto autonomamente dal bambino
- Essere un sano esercizio dell’attività svolta insieme a scuola, non una compensazione di ciò che non si è fatto
- Occupare non più di 15 – 30 minuti al giorno, a seconda dell’età del bambino (per i ragazzi delle medie e superiori è diverso, perché l’autonomia sarà anche studiare degli argomenti da soli e confrontarsi poi in classe)
- Essere “autentico”, ovvero portare a competenza e non a semplice conoscenza
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Fonte: http://blog.bimbonaturale.org/fare-o-non-fare-i-compiti-questo-e-il-dilemma-quando-e-perche-i-compiti-servono-ai-nostri-bambini/
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