19 ottobre 2016

Mamme e papà dopo un tumore, con trattamenti di riproduzione assistita si può

Solo dieci anni fa non c’era alcuna speranza. Nella maggior parte dei casi, il tumore cancellava qualsiasi possibilità di essere genitori utilizzando i propri gameti, a causa dell’effetto di chemioterapia e radioterapia sulla fertilità. Per fortuna i progressi scientifici degli ultimi anni hanno permesso qualcosa di miracoloso come il fatto che un paziente con diagnosi oncologica possa diventare genitore, una volta sconfitta la malattia, grazie a trattamenti di riproduzione assistita.

Proprio per questo IVI ha avviato nel 2007 il suo programma gratuito di Preservazione della Fertilità per motivi oncologici Padre dopo il cancro e Madre dopo il cancro. Da allora sono 14 i bambini nati dopo che le loro madri hanno vinto la battaglia contro il cancro. 11 di loro nati da madri con tumore al seno, il più frequente tra le pazienti di IVI. A loro si aggiungeranno i due neonati che nasceranno prima della fine dell’anno, portando quindi a 16 i sogni realizzati sotto forma di vita, desideri che nella maggior parte dei casi danno ai pazienti la forza di affrontare la propria malattia con la speranza di diventare un giorno genitori.

Fino ad oggi abbiamo preservato la fertilità di circa 800 pazienti oncologiche, il 65% delle quali con diagnosi di tumore al seno. Si tratta del tumore più frequente nelle donne, dal momento che il rischio di soffrire di questa malattia riguarda 1 donna su 8. Allo stesso tempo, oggi disponiamo di molta informazione e mezzi per poter diagnosticare il tumore al seno precocemente in modo da poter intervenire immediatamente, cosa che ha permesso di portare i livelli di sopravvivenza globale a 5 anni dalla diagnosi all’87% secondo i dati dell’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM) relativi al 2015. Questa situazione aiuta le pazienti oncologiche a guardare avanti con ottimismo, coscienti delle proprie possibilità non solo di cura ma anche di diventare madri” commenta Daniela Galliano, direttrice del Centro IVI di Roma.
Oltre la metà delle pazienti che hanno vitrificato i propri ovuli per motivi oncologici lo hanno fatto prima dei 35 anni e il 30% di loro oggi sono madri dopo aver superato la malattia.

Come si preserva la fertilità

Quando un paziente riceve una diagnosi di tumore e richiede un trattamento di preservazione della fertilità, si analizzano le opzioni migliori per conservare i suoi gameti senza che questo influenzi l’evoluzione della malattia. Per fare questo bisogna tenere a mente due premesse: la prima è che l’oncologo parli al paziente di questa possibilità di preservazione gratuita e la seconda è la rapidità con cui è necessario agire per non ritardare l’inizio della terapia oncologica. In ultima istanza sarà il ginecologo, in collaborazione con l’oncologo a decidere la tecnica più adatta a ciascun caso” spiega la dottoressa Galliano.

Nel caso degli uomini è semplice. Un campione di sperma basterà per conservare i gameti maschili in caso ci sia necessità di utilizzarli in futuro.

Nel caso delle donne due sono le tecniche più usate:

  • La vitrificazione degli ovociti che consiste nella crioconservazione – immersione diretta in nitrogeno liquido a una temperatura di -196°C – degli ovuli maturi ottenuti grazie alla stimolazione ovarica al fine di usarli una volta superata la malattia con lo stesso livello qualitativo del momento della conservazione.
  • Il congelamento della corteccia ovarica per trapiantarla dopo il tumore, che permetterebbe anche gravidanze spontanee una volta recuperata la funzione ovarica della paziente. Questa tecnica si applica a quei casi che richiedono un inizio immediato della chemioterapia – senza che ci sia tempo per la stimolazione ovarica – , in donne per le quali la stimolazione ovarica non sia raccomandata o nelle bambini in età prepuberale.

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Sindromi influenzali nel bambino: l’uso corretto dei farmaci. Come gestire febbre e dolore

Secondo uno studio realizzato dall’Unità di Pediatria ad Alta Intensità di Cura del Policlinico dell’Università degli Studi di Milano e recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista International Journal of Medical Science, febbre e dolore sono generalmente frequenti nei neonati e nei bambini di ogni età e rappresentano oltre il 30% dei motivi che spingono i genitori a rivolgersi al pediatra. Ma non solo. I dati emersi evidenziano che oltre l’80% dei ricoveri in ambito ospedaliero pediatrico è dovuto a patologie che presentano, fra i vari sintomi, anche il dolore.

Il 35° Congresso Nazionale di Antibioticoterapia in età pediatrica si apre domani a Milano con un ampio dibattito sull’importanza dell’utilizzo appropriato del paracetamolo nei bambini con sindromi influenzali e sulle emergenze tossicologiche derivate dal suo abuso.

Stimoli dolorosi o prolungati in età pediatrica – sottolinea la prof.ssa Susanna Esposito, direttore dell’Unità di Pediatria ad Alta Intensità di Cura del Policlinico dell’Università degli Studi di Milano – possono indurre un insieme di modificazioni nel sistema nocicettivo. Il dolore nei bambini è spesso associato ad una malattia come un’influenza o ad un infortunio e, in presenza di un malessere generale, riteniamo che il dolore debba essere trattato e non sopportato, anche quando il bambino non esprima verbalmente il proprio disagio. L’efficacia del trattamento antalgico in età pediatrica si ottiene applicando flessibilmente il principio del “farmaco giusto, alla giusta dose e al momento giusto” a ogni singolo paziente, in altre parole è l’intensità del dolore a far scegliere il gradino della scala”.

Al fine di gestire correttamente la febbre e comprendere l’importanza del trattamento del dolore nel bambino, qui alcuni consigli per mamme e papà:
• Non utilizzare nei bambini farmaci a dosaggi per adulti
• Gli antipiretici e gli antinfiammatori vanno somministrati sempre in base al peso e non all’età
• È importante somministrare gli analgesici a orario fisso al fine di evitare l’insorgenza di “buchi” di dolore. L’intervallo fra le dosi dovrebbe essere determinato in accordo con l’intensità del dolore e la durata dell’effetto analgesico del farmaco utilizzato
• I farmaci antipiretici devono essere impiegati nel bambino febbrile solo quando alla febbre si associ un quadro di malessere generale
Paracetamolo e ibuprofene sono gli unici antipiretici raccomandati in età pediatrica, sono farmaci generalmente sicuri ed efficaci
• Il paracetamolo è indicato come farmaco di prima scelta nel trattamento del dolore lieve-moderato
• La somministrazione di paracetamolo per via orale è preferibile a quella rettale in quanto l’assorbimento è più costante ed è possibile maggiore precisione nel dosaggio in base al peso corporeo; la via rettale è da valutare, però, in presenza di vomito o di altre condizioni che impediscano l’impiego di farmaci per via orale
• Nei pazienti con asma persistente lieve, l’utilizzo di paracetamolo al bisogno non è stato associato ad una più alta incidenza di esacerbazione d’asma o peggioramento del controllo dell’asma
• L’ibuprofene, in quanto FANS, è il farmaco di scelta per la cura delle patologie dolorose con componente infiammatoria
• L’ibuprofene non è raccomandato in bambini con varicella o in stato di disidratazione; è raccomandata cautela nei casi di grave insufficienza epatica o renale o in soggetti con malnutrizione grave
Paracetamolo con dosaggio 15 mg/kg/dose 4-6 volte al giorno e ibuprofene con dosaggio 10 mg/kg/dose 2-3 volte al giorno sono efficaci nel trattamento della cefalea acuta.

La febbre e il dolore nel bambino – conclude il prof. Diego Fornasari, professore associato di Farmacologia, Università degli Studi di Milano – creano sempre un forte stato d’ansia nei genitori che, in generale, tendono a sovratrattare la febbre magari ravvicinando le dosi o somministrandole in quantità maggiore rispetto a quelle previste oppure a sottovalutare il dolore. Per questo è fondamentale rispettare i dosaggi e gli intervalli indicati nella somministrazione del paracetamolo, ricordando che agisce sul sistema nervoso centrale e non ha un’azione antinfiammatoria come invece l’ibuprofene. Entrambi sono farmaci sicuri ed efficaci nei bambini ma è importante sapere che il loro uso non appropriato o, peggio, l’abuso può avere effetti collaterali con un rischio di gastrolesività nel caso dell’ibuprofene o di disfunzioni a livello epatico nel caso del paracetamolo”.

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Pertosse, vaccinarsi in gravidanza conviene?

Se una mamma in attesa fa il vaccino anti-pertosse durante il terzo trimestre di gravidanza, gli anticorpi prodotti dal suo sistema immunitario passano la barriera della placenta e raggiungono il nascituro, che risulta così protetto dal rischio di contagio per i primi sei mesi dopo la nascita, in attesa di completare il ciclo vaccinale previsto nell’infanzia e disporre dei propri anticorpi. Per questa ragione, quattro società scientifiche, la Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica, la Società Italiana di Pediatria, la Federazione Italiana Medici Pediatri e la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, raccomandano la vaccinazione anti-pertosse nel terzo trimestre di gravidanza a tutte le future mamme. L’indicazione è contenuta nel Calendario per la Vita, un documento aggiornato ogni due anni che elenca le vaccinazioni consigliate sulla base delle più recenti evidenze scientifiche. Non è, però, compresa tra quelle offerte gratuitamente dal servizio sanitario pubblico secondo il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale attualmente in vigore, né secondo il piano 2016-2018, in fase di approvazione. Come regolarsi, quindi? La somministrazione del vaccino in gravidanza comporta rischi per la salute della donna e del nascituro? Qual è la probabilità che un bimbo contragga la pertosse nelle prime settimane di vita, prima di ricevere in prima persona la vaccinazione? E quali sono i rischi in caso di infezione in così tenera età? Ecco le risposte degli esperti.

Non è pericoloso somministrare vaccini in gravidanza?

“In gravidanza si presta particolare attenzione a non assumere farmaci che non siano strettamente necessari”, osserva Paolo Bonanni, ordinario di Igiene dell’Università di Firenze. “Alcuni sono controindicati perché possono arrecare danni allo sviluppo e alla salute del feto, ma ciò non significa che tutti i farmaci siano nocivi. Nel caso dei vaccini, durante l’attesa sono controindicati quelli che contengono microrganismi vivi attenuati. Il vaccino anti-pertosse utilizzato oggi in Italia contiene solo frammenti del batterio della pertosse, la Bordetella pertussis, dunque non comporta un maggior rischio in gravidanza. Nel nostro Paese, il vaccino anti-pertosse non si trova in commercio in formulazione singola, ma solo in formulazione trivalente, associato a quello anti-tetanico e a quello anti-difterico. Anche questi due sono sicuri in gravidanza. La vaccinazione anti-tetanica è raccomandata alle future mamme nei Paesi in via di sviluppo, dove è più elevato il rischio di tetano neonatale, e abbiamo abbondanza di dati sulla sua innocuità per la donna e per il nascituro. Anche per il vaccino anti-pertosse abbiamo abbondanza di dati, perché dal 2011 è raccomandato a tutte le donne in attesa negli Stati Uniti e dal 2012 in Gran Bretagna, Belgio, Israele, Nuova Zelanda, Argentina e altri Paesi e in questi anni la letteratura medica non ha evidenziato problemi”.

Vaccinazioni da fare prima del concepimentoLa rosolia

Se la futura mamma si è vaccinata da piccola, ha già gli anticorpi da trasmettere al nascituro. Che necessità c’è di ripetere la vaccinazione in gravidanza?

“Purtroppo, la memoria immunitaria indotta dalla vaccinazione anti-pertosse, come pure quella indotta dalla malattia, è di breve durata”, risponde Bonanni. “Il vaccino protegge per circa 7-8 anni, la malattia per una decina di anni. Nel corso della vita ci si può ammalare più volte di pertosse ed è quello che spesso accade agli adulti, nonostante siano stati vaccinati da piccoli. Non ce ne accorgiamo perché nell’adolescente e nell’adulto la pertosse ha sintomi sfumati rispetto a quelli nel bambino e viene confusa con l’influenza o con una bronchite. La donna adulta che è stata vaccinata da piccola e che aspetta un bambino non ha più anticorpi da trasmettere al nascituro. Gli studi fatti dimostrano che per estendere la protezione al feto, la madre deve vaccinarsi durante il terzo trimestre di gravidanza, possibilmente tra la 27a e la 32a settimana. E naturalmente, la vaccinazione andrebbe ripetuta a ogni nuova gravidanza”.

Se la mamma si vaccina in gravidanza, il bambino non ha più bisogno di fare il vaccino?

L’immunità conferita dalla vaccinazione materna ha una durata di circa sei mesi, quel che basta per proteggere il neonato nella fase in cui è più vulnerabile al rischio del contagio e in cui un’eventuale infezione sarebbe più pericolosa per lui”, spiega Paolo Bonanni. “Il calendario vaccinale per l’età pediatrica prevede che la prima dose di vaccino venga somministrata al bambino nel terzo mese di vita, cioè al compimento dei due mesi. La seconda dose è prevista al compimento dei quattro mesi e la terza a un anno. La vaccinazione materna non sostituisce quella diretta del bambino, ma serve a proteggerlo in attesa che riceva le prime due dosi e sviluppi da solo un’adeguata quantità di anticorpi”.

Vaccino antinfluenzaleperché va fatto

Qual è la probabilità che un bimbo di poche settimane di vita, che non frequenta coetanei e trascorre molto tempo in casa, si ammali di pertosse?

I primi sei mesi di vita sono proprio la fascia d’età in cui viene segnalata la maggiore incidenza di pertosse in Europa. Secondo l’ultimo rapporto epidemiologico annuale pubblicato dall’European Centre for Disease Prevention and Control nel 2016, con dati relativi al 2014, nel nostro continente si ammalano di pertosse 50 bambini ogni 100.000 nel primo anno di età, dei quali l’83% si ammala nei primi sei mesi di vita. Non è un dato sorprendente, considerato che i bambini più grandi sono meno suscettibili perché protetti dalla vaccinazione e che le infezioni degli adulti spesso non vengono segnalate perché i sintomi sono più blandi e non vengono riconosciute come tali. “La ragione per cui il batterio arriva ai bimbi di poche settimane di vita è che continua a circolare tra gli adulti”, spiega Bonanni. “Poiché la memoria immunitaria è breve, l’adulto si ammala, spesso senza saperlo, e può trasmetterlo a un neonato. Nel 50% dei casi di infezioni nelle prime settimane di vita è la mamma stessa a contagiare il bambino. Anni fa è stato proposta una strategia definita ‘a bozzolo’ per proteggere i più piccoli: raccomandare la vaccinazione dei genitori e degli altri adulti di famiglia per circondare il neonato di persone immuni. La strategia si è rivelata inefficace perché c’è sempre qualche adulto estraneo con cui il bambino entra in contatto occasionale nelle prime settimane di vita: un parente o un amico in visita, una baby sitter… È più efficace indurre l’immunità nel bimbo attraverso la vaccinazione materna in gravidanza, quello che si propone oggi. Non dimentichiamo che la pertosse per un bambino così piccolo rappresenta una grave minaccia. Spesso i piccoli ammalati devono essere ricoverati in terapia intensiva e aiutati con l’ossigeno a respirare e non sono rari i decessi”.

Antibiotici in gravidanzaSì o no?

Se la vaccinazione materna in gravidanza è così importante, perché non è inclusa tra quelle raccomandate e offerte gratuitamente nel Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale che il Ministero della Salute sta approvando proprio in questi giorni?

“Negli ultimi anni in diversi Paesi d’Europa e fuori dall’Europa è stato rilevato un aumento dei casi di pertosse neonatale. Per questa ragione, le autorità sanitarie di quei Paesi hanno deciso di raccomandare la vaccinazione in gravidanza”, spiega Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate dell’Istituto Superiore di Sanità. “In Italia per il momento non è stata registrata la stessa tendenza. Per questo non abbiamo reputato necessario raccomandare e offrire gratuitamente l’anti-pertosse in gravidanza. Stiamo tenendo d’occhio i dati e, qualora l’incidenza aumentasse anche da noi, includeremo la vaccinazione nel Piano Nazionale”.

Per quale motivo l’incidenza della pertosse neonatale è in aumento in alcuni Paesi e potrebbe aumentare anche da noi?

“Per due motivi”, dice Rezza. “In primo luogo perché il vaccino anti-pertosse acellulare, adottato da alcuni anni in diversi Paesi, tra cui il nostro, induce un’immunità più breve rispetto a quella indotta dal vaccino a cellule intere, più breve di circa due anni. Il risultato è un’aumentata circolazione del batterio tra la popolazione degli adolescenti e degli adulti. Il secondo motivo è che si vaccinano sempre meno bambini e quindi l’infezione circola di più anche tra loro”. Ma perché adottare un vaccino che induce un’immunità più breve? “Il vaccino a cellule intere, utilizzato in precedenza, aveva una scarsa tollerabilità”, spiega Paolo Bonanni. “Non comportava un maggior rischio di reazioni gravi, ma dava una reazione infiammatoria locale più fastidiosa. Con il vaccino acellulare questo problema è superato, ma di contro la durata dell’immunità è più breve. Tutti vorremmo vaccini efficacissimi e tollerabilissimi. La ricerca avanza e i miglioramenti sono progressivi”.

Quindi, che cosa può fare oggi la donna in attesa che decide di vaccinarsi contro la pertosse?

“Purtroppo su questo argomento c’è ancora poca informazione e poca sensibilità perché se ne parla da poco, quindi può accadere che la futura mamma interessata alla vaccinazione si senta sconsigliare dal suo medico curante, o addirittura dal personale dell’ambulatorio vaccinale di zona”, osserva Bonanni. “Speriamo che col passare del tempo l’informazione corretta penetri maggiormente tra i medici e tra i cittadini. Per il momento quello che si può fare è rivolgersi all’ambulatorio vaccinale di zona e chiedere il richiamo della trivalente anti-pertosse, anti-tetano e anti-difterite. Benché non venga offerta gratuitamente in gravidanza a scopo protettivo del nascituro, alcune Regioni e alcune ASL la offrono gratuitamente a tutti gli adulti ogni dieci anni. Dunque in alcune zone è possibile riceverla gratuitamente in quanto richiamo periodico per l’adulto. In altre zone è a pagamento. Il periodo giusto in cui vaccinarsi, come già detto, è tra la 27a e la 32a settimana di attesa”.

Si vaccinano sempre meno bambini...Perché?

Maria Cristina Valsecchi

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